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Formichetti, o della necessità del “non nuovo”.

Non c’é dubbio, il dripping di cui fa uso, che per la verità é uno e uno solo degli espedienti espressivi di cui si serve la sua pittura (che fa molto più uso, per esempio, degli “incroci larghi” e dei “grovigli” alla Emilio Vedova), deve a un altro, tale Pollock, la sua invenzione. E anche il body painting che esegue direttamente sul corpo aggraziato di belle fanciulle – perché, quando si fanno performance di questo tipo, le donne non sono mai attempate e sovrappeso? Volerle abbellire sarebbe più giustificabile, senza contare che fornirebbero anche più superficie su cui dipingere – non può dirsi roba del tutto nuova, risalendo in prima istanza alle Antropometrie di Yves Klein, le femminilissime sindoni in blu che tanto costarono al debole cuore dell’estroverso nizzardo, per via della ridicolizzazione che ne fece Gualtiero Jacopetti nel film Mondo cane. Ma perché mai l’arte di Silvio Formichetti dovrebbe ricorrere al nuovo? E’ questione che non meriterebbe neanche di essere affrontata, se non fosse che negli ultimi tempi lo stereotipo per cui nell’arte contemporanea solo il nuovo dovrebbe avere dignità di considerazione é stato riaffermato in maniera piuttosto impudica, come se il Novecento più schematico ed ideologico non fosse morto e sepolto da ormai qualche tempo, ma si trovasse ancora qui a lottare insieme a noi, come dicevano i militanti politici di una volta, prendendo a pretesto un artista agli antipodi rispetto a Formichetti, l’ipermimetico Luciano Ventrone. Ripeto in minimi cenni la replica che nell’occasione ho rivolto a Francesco Bonami. L’idea di progresso per cui l’arte dovrebbe sempre produrre il nuovo é astrazione contraria al senso più oggettivo e pragmatico della storia. In arte, esattamente come nella vita, non ci sono solo innovatori, c’é chi vuole provare nuove strade, ma anche chi guarda a un “già detto” che può ritenere più rassicurante. Di per sé l’uno non é meglio dell’altro, la differenza – é questo il punto centrale – la fa la sostanza di ciò che si dice, perché tutto può essere attuale quando riesce a stabilire una sintonia significativa con il pensare e il sentire di uomini attuali.

Quindi, applicando al nostro caso, é evidente che Formichetti non abbia alcun bisogno di essere nuovo per poterci risultare perfettamente attuale, così come in effetti lo avvertiamo. Il nuovo a tutti i costi lo vuole, con buona pace di Bonami e di certo pseudo-progressismo, la logica di mercato per la quale il rinnovamento continuo della merce non può che avere un unico scopo, il più prevedibile, l’incremento dei consumi. In questo senso, già il solo rifarsi a un “già detto” artistico, come fa Formichetti, significa prendere le distanze da questa logica, e in modo del tutto meritevole, visti gli effetti degenerati che il suo predominio sta provocando non solo nelle cose dell’arte.

Certo, qualcuno potrebbe obiettare che Formichetti non sia assimilabile al caso di Ventrone, visto che appare decisamente “più nuovo” di quanto non sembri l’altro. Suppongo che Bonami potrebbe pensarla diversamente (sarebbe comunque interessante conoscere il suo parere in proposito), ma io non ne sono affatto sicuro. C’é una sola certezza, che la figurazione é linguaggio storicamente più remoto dell’Informale alla cui grammatica Formichetti fa riferimento. Ma sul fatto che la riproduzione d’intento mimetico, praticata in maniera ossessiva da tutti i mass media contemporanei, sia diventata in arte qualcosa fuori dal tempo avrei i miei fortissimi dubbi.

Il centro del discorso affrontato in questo testo vuole però essere un altro. E’ così importante che l’arte di Formichetti, pur essendo “non nuova”, sia comunque “più nuova” rispetto ad altre che si rifanno a una storia dal passato più antico? Anche in questo caso, lascio agli altri le certezze granitiche. Io mi limito a constatare che se l’arte é linguaggio, come si dice con abusata ovvietà, e il contemporaneo é il momento che più di ogni altro, secondo l’accezione cara ai “progressisti”, dovrebbe verificare l’introduzione di nuovi linguaggi, ci dovrà pur essere qualcuno che di quei linguaggi, perché non rimangano situazioni isolate, legate al personalismo di un artista o di determinati gruppi, si prenda la briga di renderli correnti. E’ questo quello che ha fatto Formichetti: ha imparato la lingua di base dell’Action Painting e dell’Informale europeo, in particolare quella praticata da Vedova, come abbiamo già accennato, si é appropriato dei suoi presupposti e li ha sviluppati in un modo originale che é riuscito a individuare un’equazione sinergica, del tutto confacente alla sua personalità, fra una gestualità da sciabolatore, una sacrale perentorietà di segno e una barocca effervescenza di un colore puro all’origine, dimostrando in tal modo che l’opzione espressiva da cui é partito non era qualcosa di legato solo a certi nomi, a un certo periodo storico e a una certa condizione culturale, come spontaneamente sarebbe portato a credere chi vedesse le opere di settanta, sessanta e cinquanta anni fa nelle fotografie di un manuale o nelle stanze obitoriali di un museo. Il nuovo, non solo in arte, ha sempre un rischio, quello di poter rimanere lingua morta un attimo dopo avere esaurito la sua carica di innovazione. A sedimentarlo nel presente come cosa viva in grado di mettersi in rapporto con gente altrettanto viva, evitando di farlo diventare archeologia anzitempo, ci devono pensare altri artisti, dediti in questo senso a un “non nuovo” dalla fondamentale funzione stabilizzatrice. Qualcuno non deve averlo ancora capito, ma essere primi serve a poco se non ci sono degli adeguati “secondi” che continuano a battere la strada da loro indicata. E’ dalla capacità di questi “secondi” nell’estendere le premesse iniziali incidendo quanto più possibile nell’attualità del loro tempo che dipende molta della sorte di quanto i “primi” hanno proposto come novità. Perché le novità non sono delle acquisizioni automatiche, sono proposte, possono essere accettate, ma anche lasciate cadere, come spessissimo é capitato nella storia per le ragioni più varie. Non fossero esistiti i petrarcheschi, oggi ingiustamente sottovalutati nei loro meriti, Petrarca sarebbe forse rimasto un fenomeno a sé, ammirato certamente, ma incapace di produrre un seguito nel modo di esprimersi liricamente così massiccio come poi é stato. Lo stesso, visto che stiamo parlando di arte, si potrebbe dire dei raffaelleschi, che non furono solo dei semplici, meccanici emuli del maestro, ma suoi prosecutori, quindi sviluppatori autonomi di un linguaggio che ha finito per adattarsi a tempi e gusti (si pensi solo ai casi di Giulio Romano e Perin del Vaga) nel frattempo differenziatisi notevolmente da quelli dell’urbinate. Raffaello, insomma, é solo il presupposto, il resto – il raffaellismo, ovvero l’universalizzazione della parlata del maestro – lo hanno fatto altri. Analoghe considerazioni si potrebbero fare per i caravaggeschi e per tanti altri fenomeni simili nella storia dell’arte.

Perciò, ogni volta che ci troviamo davanti a un “non nuovo” di Formichetti, che sia un quadro da parete o una “ginecometria” (se si dipinge solo su donne, supporto che non é certo irrilevante ai fini del prodotto finale, é giusto adattare la terminologia a loro), smettiamola una buona volta di chiederci quanto il suo autore debba a Vedova, Pollock, De Kooning, Kline, Hartung, Mathieu o anche Klein. E’ retorica stucchevole che privilegia troppo l’inizio di una storia rispetto alla sua continuazione, come se il secondo aspetto, ai fini della narrazione nel suo complesso, non fosse importante almeno come il primo. Cominciamo semmai a chiederci, in maniera probabilmente più intelligente, quanto quei rinomati artisti debbano ad altri come Silvio Formichetti, loro prosecutore nella maniera più nobile che si possa concepire.